Dal racconto di un politico italiano dell’800 qualche riflessione per il mondo di oggi
Dal 1893 al 2018 poche cose sono cambiate: l’egoismo vince ancora sulla solidarietà
Un deputato italiano non viene rieletto. Decide così di dedicarsi ad una nuova esperienza; una avventura che andava accarezzando da anni: conoscere da vicino la dura esperienza degli emigrati italiani che partono verso l’America, imbarcandosi con loro in un transatlantico diretto in Brasile. No, non parlo del 2018 ma del 1893. Il deputato è il conte Ferruccio Macola, giornalista radicale veneto che negli anni successivi si avvicina alle posizioni della destra nazionalista e colonialista. La straordinaria e, per certi versi, attualissima e significativa esperienza, fu trascritta allora in un volume dal titolo “L’Europa alla conquista dell’America Latina”. Più recentemente, grazie all’Associazione “Mantovani nel Mondo”, un estratto dal titolo “Alla conquista del Brasile” è stato pubblicato in Italia da una piccola casa editrice. Consiglierei la lettura di questo saggio a tutti coloro che, ancora oggi, continuano a parlare della nostra emigrazione come di un flusso ordinato e organizzato di lavoratori verso il nuovo mondo, distinguendola sdegnosamente dall’emigrazione disordinata e convulsa dei flussi di profughi e di disperati che quotidianamente arrivano nelle coste del nostro Paese.
Purtroppo non è così; non fu così e probabilmente continuerà a non essere così: i grandi movimenti migratori, quelli che spostano nel mondo milioni di persone a causa della fame o delle guerre, sono stati sempre contrassegnati da disperazione e povertà, violenza e sfruttamento. Scrive il Macola nel 1892: “Rappezzati, logori, costoro si erano imbarcati, perchè avevano saputo che in Brasile ci si andava senza pagare un soldo, che a bordo c’era da mangiare, da bere e da dormire, che qualcuno li avrebbe spesati, e non domandavano di più.”
Dopo essersi imbarcato e venuto a contatto con la massa dei diseredati italiani, Macola esprime un giudizio tagliente e terribile su questi emigrati, mostrando addirittura compiacimento per l’abbandono del nostro Paese da parte loro: “L’umanitario che venisse sul porto a spargere lacrime di compassione, o l’economista che si ostinasse a ripetere che l’emigrazione è una perdita di ricchezza per ogni Paese, come si convertirebbero presto !”
L’emigrato, ieri come allora, suscita sentimenti di pietà e commiserazione ma anche di rifiuto e paura. Sarebbe ipocrita non riconoscerlo e altrettanto sbagliato distinguere tra emigrazione buona e cattiva, utile e dannosa. Nel 2017 sono state 68 milioni le persone che a causa di guerre, violenze e persecuzioni (quindi non tutti i migranti ma solo i profughi e i rifugiati) hanno abbandonato la propria terra: una popolazione superiore a quella italiana ! Un esodo di proporzioni enormi, destinato purtroppo ad aumentare proprio a causa del crescente cinismo di tanti leader e governanti nel mondo.
“Se questo è un uomo”, si leggeva nel titolo-denuncia del libro di Primo Levi a proposito dell’abbrutimento che caratterizzò le imperdonabili persecuzioni razziali nel corso della seconda guerra mondiale; anche un politico conservatore come Ferruccio Matola, di fronte alle condizioni subumane dei poveri emigranti italiani, arriva a scrivere: “E’ giusto che questi trovatori della miseria, costretti a ramingare per il mondo, arrivino fino all’abiezione di essere considerati un carico animalesco, solo perchè sono nati poveri ?”
Dal 1893 al 2018 poche cose sono cambiate; nonostante le tante conquiste dell’umanità e gli straordinari progressi nel campo dei diritti civili e politici, gli uomini e le nazioni sembrano ancora influenzati più dall’egoismo che dalla solidarietà. Noi italiani, figli e discendenti delle donne e degli uomini che riempivano (anche di cattivi odori) quelle navi dirette verso le “americhe”, siamo forse i più titolati a indicare al mondo un cammino più giusto e solidale, dove emigrazione fa rima con integrazione e sviluppo e non con segregazione e povertà.