Lettera aperta dei deputati eletti all’estero ai Presidenti Gianfranco Fini e Massimo D’Alema

Roma, 14 ottobre 2009

Caro Presidente Fini, caro Presidente D’Alema,

abbiamo appreso con interesse la notizia di un vostro prossimo incontro nell’ambito del convegno dedicato alle nuove politiche per l’immigrazione e alla cittadinanza, promosso da fondazioni di diversa ispirazione culturale. Vogliamo esprimere, prima di tutto, un sincero apprezzamento per la scelta di affrontare un tema delicato come questo, che suscita molteplici riflessioni nel dibattito politico e nell’opinione pubblica.

Esercitare una responsabilità istituzionale, soprattutto con mentalità di governo, significa sapersi assumere delle responsabilità indicando e confrontando soluzioni anche difficili, che tuttavia possano aiutare a superare la difficile transizione che la società italiana vive ormai da diversi anni. Venendo al tema della cittadinanza, non useremo molte parole per sottolineare la nostra attenzione non solo come parlamentari “senza vincoli di mandato”, ma anche come eletti da milioni di cittadini che vivono all’estero e che hanno dovuto affrontare complesse situazioni per conservare, difendere, recuperare la cittadinanza italiana.

Prima di richiamare, però, le problematiche relative alla cittadinanza per gli italiani all’estero, desideriamo manifestare, anche alla luce della specifica esperienza da noi acquisita a diretto contatto con le nostre comunità d’origine presenti nel mondo, il nostro pieno accordo con le ipotesi, affacciate in questi giorni, di attribuire la cittadinanza ai giovani nati in Italia da genitori legalmente soggiornanti da almeno cinque anni o che vi siano cresciuti fino al raggiungimento della maggiore età o, ancora, che vi abbiano compiuto un intero ciclo di studi. Siamo ugualmente propensi ad accorciare il periodo fissato per gli stranieri per poterla richiedere. Prima ancora, vogliamo riaffermare la nostra convinzione che a coloro che si dirigono verso il nostro Paese siano sempre assicurati i diritti di asilo previsti dalle leggi internazionali e la tutela dell’incolumità e della vita dovuta ad ogni essere umano.

È particolarmente sentita per noi che conosciamo direttamente il difficile percorso che gli italiani hanno dovuto compiere per superare barriere di diffidenza e xenofobia, la priorità di vedere riconosciuti diritti umani, diritti di cittadinanza e diritti sul lavoro in ambienti duri e ostili, ragion per cui chiediamo nel nostro paese un continuo e rinnovato rispetto dei diritti, accoglienza e solidarietà verso i migranti. Dimenticare o contraddire queste vicende che hanno segnato la vita di milioni di italiani non solo riapre ferite dolorose nelle persone che le hanno vissute, ma fa male soprattutto all’Italia e agli italiani. Su quali presupposti etici, infatti, affronteremo la transizione in atto da paese di emigrazione a paese anche di immigrazione? Senza rispetto delle persone e dei diritti, di che qualità sarà la democrazia nella quale si dovranno amalgamare etnie, culture, progetti di vita diversi?

Ma per noi non è meno importante testimoniare che è non solo giusto, ma utile per l’Italia favorire un’integrazione vera, equilibrata, rispettosa delle regole di coloro che scelgono il nostro Paese per lavorare, viverci e costruire le proprie famiglie. Lo sappiamo per diretta esperienza. Abbiamo avuto molto dai paesi che ci hanno accolto e aiutato a realizzare un futuro, ma a quelle società abbiamo dato il nostro lavoro, le energie e le qualità dei nostri figli. Mondi nuovi si sono sviluppati con il contributo nostro e di altri migranti. Non chiediamo riconoscimenti tardivi per noi, ma soltanto che gli italiani si rendano conto che hanno tutto da guadagnare nel fare in modo che il legittimo desiderio di progredire di milioni di uomini si possa dispiegare costruttivamente nella nostra società. Sarà un bene per tutti, non solo per chi varca i nostri confini.

Questo potrà avvenire se avremo la capacità culturale, prima ancora che politica, di considerare in una nuova luce il nostro sistema di riferimenti concettuali e giuridici, ad iniziare da quello jus sanguinis che è stato finora il criterio del tutto prevalente di concessione della cittadinanza. Il legame con il territorio e con le sue forme di vita sociale e civile può essere anch’esso un fattore di legittimazione e di appartenenza giuridica ad uno Stato. L’errore, semmai, non sta nell’ammettere questo principio innovativo, ormai maturo nella realtà delle relazioni sociali e giuridiche, ma nel farsene attrarre al punto di non riuscire a vedere che la transizione italiana è un processo complesso, denso di contraddizioni e di intrecci destinati a prolungarsi nel tempo.

Uno degli aspetti più significativi di esso riguarda proprio il rapporto tra jus sanguinis e jus soli, che allo stato sono due categorie concettuali che corrispondono a due diverse condizioni storiche, sociali e giuridiche. Tanto per esemplificare, se è giusto concedere la cittadinanza allo straniero regolarmente soggiornante per alcuni anni in Italia, può essere giusto continuare a tenere le porte chiuse per quegli emigrati che, nati in Italia, hanno perduto la cittadinanza originaria perché i paesi di insediamento non ne hanno consentito la conservazione? Allo stesso tempo, se è giusto che i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri siano considerati cittadini, può essere ammissibile che i figli di madre italiana nati all’estero prima dell’entrata in vigore della Costituzione non possano averla, al contrario dei loro fratelli nati dopo, solo perché la donna nel vecchio ordinamento non era considerata soggetto in grado di trasmetterla?

Tralasciando altre esemplificazioni, confidiamo che questo sforzo di interpretazione della società italiana di oggi e di innovazione dei sistemi normativi che stabiliscono le regole della sua organizzazione civile e della sua evoluzione tenga conto, per quanto attiene alla cittadinanza, della pluralità delle situazioni in cui si possa essere a giusto titolo cittadino italiano. Semmai, si possono considerare i modi per evitare che nelle maglie dei diritti si infiltrino soluzioni eccessive o pratiche opportunistiche, come quella di usare strumentalmente il passaporto italiano come strumento comunitario. Ma questi discutibili aspetti possono essere contrastati tanto più efficacemente quanto più la cittadinanza sia percepita non soltanto come una pratica burocratica da chiudere prima possibile ma come un valore e come un patto civile ed etico. Ben vengano, dunque, le richieste di conoscenza della nostra lingua e della nostra Costituzione come opportuno corredo della concessione della cittadinanza, ma possiamo anche in questo caso restare tranquilli di fronte all’ipotesi di chiedere le stesse cose ai discendenti dei nostri emigrati e, nello stesso tempo, vedere ridurre drasticamente l’offerta della nostra lingua e della nostra cultura nel mondo?

Vogliamo sperare che il vostro dialogo contribuisca a sciogliere questi nodi e a trovare una strada per aiutare l’Italia a uscire dalla sua lunga transizione in modo positivo e civile. Senza dimenticare il suo debito con chi ha dovuto e deve scegliere di ricollocare la sua vita altrove e senza negarsi a chi l’altrove lo trova qui, tra noi. I migranti sono veramente una leva e una straordinaria possibilità.

Noi italiani questa possibilità la possiamo cogliere in Italia e in altri luoghi del mondo e sarebbe veramente incauto lasciarsela sfuggire.

Con sentimenti di profonda stima, inviamo cordiali saluti.

I deputati eletti nella Circoscrizione Estero:
Gino Bucchino (PD)
Gianni Farina (PD)
Marco Fedi (PD)
Laura Garavini (PD)
Franco Narducci (PD)
Fabio Porta (PD)
Giuseppe Angeli (PDL)
Amato Berardi (PDL)
Aldo Di Biagio (PDL)
Guglielmo Picchi (PDL)
Ricardo Antonio Merlo (LD-MAIE)
Antonio Razzi (IDV)

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