Un fallimento lungo venti anni

Quale lezione possiamo trarre da quanto è successo in Afghanistan?

FILE PHOTO: A Taliban soldier walks on a street in Kabul, Afghanistan, September 17, 2021. WANA (West Asia News Agency) via REUTERS

La mia generazione è nata nel dopoguerra; i nostri padri hanno vissuto la tirannia del fascismo e la barbarie della guerra, con tutto il carico di dolore e atrocità che tutto ciò ha comportato.   Noi italiani abbiamo un debito di riconoscenza verso gli “alleati”, così venivano chiamati gli eserciti coalizzati contro il nazi-fascismo; tra di essi anche quello brasiliano, unico tra i Paesi latino-americani ad avere inviato proprie truppe in Italia durante la seconda guerra mondiale.   Faccio questa premessa per sgombrare il campo da ragionamenti e considerazioni dettate da ideologismo o anti-americanismo di maniera, che non ci aiuterebbero a comprendere quanto è successo nelle scorse settimane in Afghanistan. In quel Paese medio-orientale si è probabilmente consumato il più grande, e per certi versi imbarazzante, fallimento di un certo sistema occidentale – a guida statunitense – di “esportazione della democrazia”, anche se sotto l’insegna della lotta al terrorismo.

Venti anni nel corso dei quali soltanto gli Stati Uniti hanno “investito” mille miliardi di dollari (o, per dirlo all’americana, un “trilione” di dollari), la Gran Bretagna 30 miliardi, mentre noi italiani “soltanto” (le virgolette sono ironiche) 9 miliardi.   Soldi destinati al mantenimento in loco degli eserciti, all’enorme macchina militare dispiegata e all’addestramento, comprensivo della dotazione di armi e munizioni, del nuovo esercito afgano.   La repentina ritirata delle truppe americane e alleate dall’Afghanistan ha avuto le caratteristiche di una disfatta di proporzioni uniche e inimmaginabili.

Nemmeno la rovinosa fine della guerra del Vietnam può essere comparata a quanto successo in Afghanistan;  lì la guerra era stata persa dagli Stati Uniti, che però avevano combattuto. In questo caso no, abbiamo abbandonato il campo; o meglio, gli americani l’hanno fatto, e questo approfondisce il solco tra Europa e Stati Uniti.   Non è stato facile ingoiare le parole del neo Presidente degli Stati Uniti all’indomani del ritiro; un atteggiamento pilatesco che male si concilia con l’affermazione “America is back” pronunciata dallo stesso Biden all’indomani della sua elezioni.   Non si tratta ovviamente di riproporre una dottrina interventista che ha già fatto danni sufficienti e in diversi scenari internazionali; in America Latina abbiamo già sofferto le conseguenze nefaste di tale tipo di ingerenza, come dimostrano i processi attualmente in corso in Italia contro l’operazione “Condor”, sostenuta dagli Stati Uniti durante gli orribili anni delle dittature in Sudamerica.  Ma tra quel tipo di interventismo e la mobilitazione, anche militare, a sostegno della lotta per l’autodeterminazione di un popolo o il rispetto dei princìpi sanciti dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo credo che esista una bella differenza.

Sarò più chiaro: personalmente sostengo il principio della sovranità di ogni popolo contro ogni interferenza unilaterale esterna; al tempo stesso non condivido la dottrina trumpiana dell’isolazionismo assoluto, nemmeno di fronte a sistematiche violazioni di diritti umani in Paesi e popolazioni che senza la solidarietà e il supporto internazionale mai troverebbero la forza per uscire dal tunnel dell’oppressione e dello sfruttamento.

E’ per questo che, di fronte al fallimento di un modello interventista plasticamente evidenziato dal caso afgano, occorre avviare una riflessione sul ruolo delle Nazioni Unite e sul multilateralismo da un lato, e soprattutto – dall’altro – su un nuovo protagonismo dell’Italia e dell’Unione Europea, in grado di indicare una strada equilibrata capace di coniugare i princìpi della sovranità e dell’autodeterminazione con quelli della difesa dei diritti umani e della tutela delle minoranze.   Tutto il resto è demagogia, manicheismo e ideologizzazione di un confronto serio e complesso sul tema, che di tutto ha oggi bisogno tranne che di un dibattito tra tifoserie contrapposte.

In un mondo sempre più interdipendente e connesso, come ci insegnano quotidianamente i flussi migratori e le spesso fallimentari politiche per gestirli, lo splendido ed aulico isolazionismo delle nazioni non servirà a costruire un mondo più giusto e solidale; di fronte al ventennio fallimentare della missione occidentale in Afghanistan bisognerà allora avere il coraggio di trovare le forze morali, culturali ed economiche (sì, anche quelle!) per rilanciare un nuovo equilibrio multilaterale mondiale, all’interno del quale l’Unione Europea dovrà assumere con coraggio il ruolo che la storia le ha assegnato, una storia fatta anche (e, direi, soprattutto) di inclusione e confronto interculturale, dentro e fuori i confini dell’Unione.

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